Il percorso che conduce alle agevolazioni «prima casa» è ben visibile e delineato dai paletti – requisiti oggettivi e soggettivi – fissati dalla legge. Eppure a volte per raggiungere e conservare i benefici fiscali si è costretti a uno slalom che chiama in causa la giurisprudenza. Perché di fronte a quegli stessi paletti generali (si veda l’articolo in basso) le situazioni specifiche possono far sorgere il bisogno di un’interpretazione: un chiarimento sui tassi di “tolleranza”, sulle deroghe ammesse e legate a motivi straordinari. Così le maglie dell’accesso ai benefici possono a volte allargarsi in base ai responsi dei giudici, non sempre univoci.
Tra i temi più dibattuti c’è il trasferimento della residenza, il cui obbligo può essere derogato solo nell’ipotesi in cui ci siano ostacoli di forza maggiore, capitati dopo la stipula dell’atto. Secondo la norma, chi compra deve infatti essere residente nel comune dove si trova l’immobile, o stabilirsi lì entro 18 mesi dall’acquisto. Una recente sentenza della Cassazione (19247/2014), depositata la scorsa settimana, ha affermato che non si decade dall’agevolazione se la ragione del ritardo sono stati i lunghi lavori di messa in sicurezza dell’edificio, per gli smottamenti provocati da abbondanti piogge. Valide cause di forza maggiore, ad esempio, sono state ritenute negli anni anche il ritrovamento di reperti archeologici, la necessità di riparare vizi della costruzione, il mancato rilascio del certificato di residenza, la morte dell’acquirente e la malattia del figlio. Mentre altri temi, come il mancato rilascio del certificato di abitabilità o le infiltrazioni d’acqua dall’appartamento di sopra, esaminati sui singoli casi, hanno invece avuto risposte contrastanti.
Quanto al mancato trasferimento dovuto a una separazione coniugale, a luglio l’ordinanza 16082/2014 della Cassazione ha affermato che la cessione di un immobile in favore del coniuge per effetto di accordi consensuali è comunque riconducibile alla volontà del cedente: dunque, niente causa di forza maggiore. Ma anche qui l’orientamento della Corte non è univoco; e ad esempio con l’ordinanza 3752/2014 si era arrivati a conclusioni opposte: attribuire la proprietà della casa al coniuge per un accordo inserito nell’atto di separazione non è rilevante ai fini della decadenza dei benefici prima casa.
I benefici si perdono anche quando l’immobile viene rivenduto o trasferito entro cinque anni dall’acquisto, senza ricomprare nel giro di dodici mesi un’altra abitazione principale. È sufficiente il contratto preliminare? Risposta negativa. Quando la legge parla di “acquisto” – ha spiegato la Suprema corte (ordinanza 17151/2014) – richiama un effetto traslativo già verificato e non in attesa d’esserlo, come avviene invece con la firma del “compromesso”. Insomma, per rispettare i tempi di riacquisto entro l’anno, serve il contratto definitivo: principio già affermato dall’agenzia delle Entrate. Né si possono addurre come giustificazioni i ritardi dovuti al fatto che la casa fosse in costruzione e quindi difettasse del regolare certificato di agibilità (Ctr Lombardia 556/49/2014).
Il Fisco ha tre anni di tempo per contestare l’irregolarità, a partire dal giorno in cui l’attività di accertamento è concretamente espletabile: in quest’ultimo caso, dalla scadenza del termine annuale che decorre dalla vendita infra-quinquennale.
Le agevolazioni sono estese anche ai cittadini italiani che risiedono all’estero e che acquistano l’immobile come prima casa sul territorio italiano. Si richiedono allora tutti i requisiti, tranne ovviamente quello della residenza nel comune dove si trova l’abitazione. Per la stessa ragione, se questi contribuenti vendono prima di cinque anni per riacquistare entro l’anno successivo e non perdere i benefici, non hanno l’obbligo – come ha sottolineato la Cassazione (sentenza 15617/2014) – di destinare la nuova casa ad abitazione principale.
fonte ilsole24ore.it uscita del 19 Settembre 2014